Svolgere la propria pelle

I lavori di questa serie, come quelli di Rovesciare i propri occhi, esprimono riflessioni sul tema dell’identità intesa come un’entità tracciata nella pelle, dove la pelle ha la proprietà di delimitare e insieme separare: la pelle come superficie sensibile, capace di relazionarsi con il mondo. In questo caso è dunque l’azione del contatto, non la vista, la fonte primaria di conoscenza, ed è ciò da cui scaturisce la scultura. Il contatto è una conoscenza che avviene in modo continuo e spontaneo, e l'impronta è la conseguenza della funzione primaria del tatto e un segno di identità.

La pelle, come l'occhio, è un elemento di confine, il punto estremo in grado di dividerci e separarci da ciò che ci circonda, il punto estremo in grado di avvolgere fisicamente estensioni enormi…

È il punto che mi permette ancora e dopo tutto di riconoscermi.

Svolgere la propria pelle, 1970 (dettaglio)

© Archivio Penone

Già nell'opera Gli anni dell'albero più uno (1969) la collaborazione tra l'artista e la natura è un processo che avviene esplorando, toccando e accarezzando la corteccia con la punta delle dita per stendervi attorno uno strato di cera corrispondente a un anello di crescita dell'albero. Penone qui lavora sul tronco non attraverso per sottrazione, evidentemente, come avviene per gli Alberi scortecciati, ma per addizione e le impronte dell’artista finiscono per coesistere con quelle della corteccia.

Un'altra azione tattile di esplorazione e creazione molto praticata da Penone è il frottage. Già nel 1969 ad esempio realizza Una lettura tattile della scorza dell'albero, consistente nel rilevamento di un intero tronco su quindici fogli di carta sfregati con la grafite. Questo medesimo processo, che sfrutta il medium cartaceo per istituire un rapporto di coerenza tra opera e pagina del libro, è spesso impiegato dall’artista quando gli viene richiesto di rappresentare il proprio lavoro in cataloghi di importanti esposizioni. Per la mostra "Konception-conception" allo Städtisches Museum Schloss Morsbroich di Leverkusen, realizza 8161 pagine di un libro, strofinando su cinque fogli la medesima frase incisa su una matrice tipografica metallica e su una superficie lignea a rappresentare l'assimilazione progressiva di un testo da parte di un albero in crescita.

Gli anni dell'albero più uno, 1969

© Paolo Mussat Sartor

Esplorando le varie possibilità di "svolgere la propria pelle", Penone sperimenta materiali e tecniche: inchiostro, polvere e nastro adesivo si prestano bene per rivelare le impronte della sua pelle, spesso in combinazione con la fotografia e la stampa su pellicola trasparente. È questa pellicola che l’artista fa aderire agli oggetti, "svolgendo" su di essi la propria pelle. Con questo procedimento realizza Svolgere la propria pelle – finestra: una serie di opere nelle quali la proprietà della pelle di essere contemporaneamente elemento interno ed esterno del corpo trova corrispondenza nella funzione di diaframma che ha una finestra. Ma le pellicole trasparenti su cui è impresso il dettaglio della pelle si possono "svolgere" anche sulle ringhiere (Svolgere la propria pelle - ringhiera, 1970), oppure sui neon che illuminano gli spazi espositivi (Svolgere la propria pelle - neon, 1970). I lavori Svolgere la propria pelle - maniglia, Svolgere la propria pelle nel bosco, Svolgere la propria pelle - cuneo, Svolgere la propria pelle contro l’aria, Svolgere la propria pelle sui finestrini di un treno, Svolgere la propria pelle sul pelo dell’acqua sviluppano la potenzialità del tema in ulteriori situazioni.

Svolgere la propria pelle – finestra, 1970

© Paolo Mussat Sartor

Premendo invece vetrini da laboratorio sulla propria pelle, l’artista mappa tutto il proprio corpo, documentando il processo attraverso 607 scatti che, assemblati, diventano un lavoro fotografico, Svolgere la propria pelle (1970) e quindi un libro, pubblicato nel 1971 da Gian Enzo Sperone. Penone compie una simile perlustrazione anche sul corpo del suo cane Moretto (Svolgere la propria pelle - cane, 1970).

In Svolgere la propria pelle – pietra (1971) l’artista prende una pietra di fiume, la tocca e la immerge nell'acido. Come nei processi incisori, l'acido corrode la pietra, ad eccezione dell'area di contatto recante il grasso naturale della pelle della mano che protegge la superficie. L’azione è documentata in una sequenza fotografica che mostra la mano di Penone che afferra la pietra, la pietra che affonda nell'acqua bassa, l'acqua che avvolge la pietra e che riempie le scanalature fatte dall'acido. In questo modo, l’acqua rende visibile l'impronta della mano e al tempo stesso conferisce una forma e una sostanza materiale all’atto compiuto dall’artista.

Svolgere la propria pelle – pietra, 1971

© Archivio Penone

In Svolgere la propria pelle su 41580 mm² (1971) viene ripetuta un'impronta digitale su 288 fogli per un’ampiezza equivalente all'area indicata nel titolo.

Il lavoro Svolgere la propria pelle – Dita è costituito da dieci fotografie (una per ogni dito delle mani dell’artista) stampate su pellicola trasparente e applicate su superfici riflettenti. Una versione è stampata in bianco e nero e un'altra a colori. Ognuna delle dieci fotografie riprende un dito diverso premuto su una superficie trasparente. Nel punto di pressione la punta del dito appare bianca, conferendo allo specchio la trasparenza necessaria alla rifrazione. Nella zona interessata dal contatto la pelle del dito scompare e lì, nel punto di incontro tattile, si verifica il passaggio della luce. L'opera è stata inserita nella prima mostra in Italia a dare un riconoscimento teorico alla fotografia d'arte, Combattimento per un'immagine, presso la Galleria Civica d'Arte Moderna di Torino nel 1973.

Svolgere la propria pelle – Dita, 1971

Paolo Pellion © Archivio Penone

L'opera Guanti (1972) introduce l'interesse per i concetti di negativo e positivo inerenti alla dinamica del contatto. Si compone di due fotografie che mostrano la mano destra e la mano sinistra l'una accanto all'altra, con i palmi esposti. Nella prima fotografia la mano destra è nuda mentre la sinistra indossa un guanto in lattice, rovesciato al contrario, ottenuto da un calco dell'altra mano. L'azione opposta è mostrata nella seconda fotografia. Su ciascuna delle due mani "si svolge" la pelle dell'altra mano.

Guanti, 1972

© Archivio Penone

In Mano (1972) un'immagine fotografica a colori della mano dell'artista è proiettata sul calco in gesso della sua mano con l'indice rivolto verso lo spettatore. La stessa tecnica del calco e della proiezione è sviluppata in opere che indagano altre parti anatomiche, come in Guardare l'aria (1973), dove l'immagine di un modello viene proiettata su un calco in gesso ottenuto dal particolare del suo viso a occhi chiusi. Penone ricava ed espone una serie di volti, coinvolgendo i suoi amici artisti più stretti.

Guardare l'aria, 1973

© Archivio Penone

La pressione dell’aria sul nostro corpo è la matrice della nostra pelle.

Un raggio di luce che colpisce un oggetto provoca la sensazione
che esista una pressione sulla superficie illuminata.

La pressione della luce sugli occhi.

In Pressioni (1974-80) l’immagine dell’impronta della pelle catturata dall'adesivo trasparente viene proiettata a scala molto ingrandita su di una parete, per poi essere ripassata in grafite. In questi lavori è introdotta la pratica dell'ingrandimento, la cui logica è riconducibile al fatto che il tatto - come ha osservato Penone - non dà indicazioni immediate sulla misura delle cose.

Pressione, 1977

© Paolo Mussat Sartor

Analogamente, le opere che compongono la serie Palpebre (dal 1977) sono impronte ingrandite delle palpebre destra e sinistra dell'artista. Nella maggior parte di questi lavori, i disegni sono completati dai calchi in gesso della parte anatomica da cui sono tratti. Penone suggerisce la possibilità di vedere le cose contemporaneamente dall'interno e dall’esterno: come in Rovesciare i propri occhi, "è come guardare attraverso le palpebre chiuse", resta annotato sul retro di una fotografia.

Palpebre, 1989–1991

© Archivio Penone

Si svolge tutto sulla superficie, tutto il processo vitale è in superficie.

Aderire con i piedi al terreno e la testa nel vento, nel cielo.

Superficiale è la muta, la scoria,
il residuo che produce l’humus necessario alla vita.

La preoccupazione è di cancellare la scoria, il non vivo,
per avere negli occhi soltanto il presente, il vivo, l’attuale.

Una preoccupazione che investe e richiede un’enorme energia.

La traccia dell’uomo in natura è benvenuta,
la si accoglie con serenità, ci rassicura;
altra cosa è la traccia dell’uomo in città.

Si evita, si guarda con sospetto, ci ripugna, si cancella continuamente.

In questo sta la maggior parte dell’attività della città.

C’è ribrezzo al solo pensiero di un’impronta,
è sporco, non può essere accettato
è vitale rimuoverlo, cancellarlo, per creare lo spazio per un nuovo sporco,
sedimentazione, testimonianza di vissuto che a sua volta verrà rimosso.

Si cancella la memoria dell’uomo-materia.

Viene esaltata invece, la forma, la materia che testimonia l’uomo come pensiero, meglio se con materiali asettici.

Sta in questo spazio ristretto la possibilità di espressione accettata.

La dimensione di un’opera d’arte sarà sempre a misura dei sensi.

[Cfr. Daniela Lancioni, Svolgere la propria pelle (To Unroll One’s Skin), in Giuseppe Penone. The Inner Life of Forms, a cura di Carlos Basualdo, Gagosian, New York 2018, booklet IV]

Svolgere la propria pelle, 1970

© Archivio Penone